Quest'anno ricorre il quarantennale della morte di Dino Buzzati, ma è nel giorno del suo compleanno che preferisco postare questo vecchio articolo comparso originariamente nel 2009 sulle pagine di Writers Magazine Italia. Si tratta di un ritratto del suggestivo e versatile scrittore ricostruito attraverso le lettere inviate al compagno di scuola Arturo Brambilla. Buona lettura!
DINO BUZZATI: Un ritratto attraverso le lettere all’amico Brambilla
[Writers Magazine Italia - Anno 5 - Numero 16 - Ottobre 2009 (pp. 6-12)]
Dino
Buzzati nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, nei pressi di Belluno, nella
villa cinquecentesca di proprietà della famiglia, in un contesto di alta
borghesia veneta dalle solide tradizioni. Il padre Giulio-Cesare Buzzati-Traverso,
nato a Venezia da genitori bellunesi ma di lontana ascendenza ungherese, è
professore di Diritto Internazionale all’Università di Pavia e alla Bocconi di
Milano, e per questo costringe la famiglia a lunghi soggiorni nel capoluogo
lombardo; la madre, Alba Mantovani, di provenienza veneta, è sorella di Dino
Mantovani, autore della prima monografia su Ippolito Nievo e ultima discendente
della famiglia dogale dei Badoer Partecipazio. Dino è il secondogenito di
quattro figli: Augusto, Angelina e Adriano sono gli altri fratelli; l’uno
ingegnere; l’altra sposa allo scrittore e disegnatore Giuseppe Ramazzotti;
Adriano, infine, scienziato di fama mondiale.
LE LETTERE A BRAMBILLA
Migliore
amico di Dino Buzzati, sin dall’adolescenza, è Arturo Brambilla, noto giurista
e latinista, nato nel 1906 e morto nel 1963, nove anni prima dello scrittore. Ed
è fra le opere postume dello scrittore, che troviamo, appunto, le “Lettere a
Brambilla”.
Dino
Buzzati scrive al suo migliore amico per oltre trent’anni. E su quelle lettere
prende forma l’autobiografia di uno scrittore che si racconta nella sua vita
quotidiana, con la schiettezza di chi sa di parlare a una persona in grado di
ascoltarlo e disponibile a comprenderlo. Si tratta di una fitta corrispondenza
che offre un prezioso contributo e che, meglio di qualsiasi saggio, si
configura come un’introduzione alle opere dello scrittore e giornalista. Nelle
lettere ad Arturo, Buzzati svela il perché delle sue scelte, racconta la
nascita dei suoi lavori, e soprattutto offre “l’eccezionale cronaca della sua
crescita umana e intellettuale” (Luciano Simonelli).
NASCITA DI UN’AMICIZIA
Dino e
Arturo si erano incontrati il primo giorno di scuola del 1916 sui banchi della
prima ginnasio al “Parini” di Milano; fra il primo, di famiglia alto-borghese,
e il secondo, figlio di un pittore che insegnava disegno e calligrafia, era
scoccata subito la scintilla dell’amicizia. Ma questa amicizia si rafforzò nel
1919 (anno d’inizio dell’epistolario), quando i due ragazzi iniziarono a
trascorrere insieme i pomeriggi invernali facendo i compiti, scrivendo racconti,
disegnando e fantasticando. I due presero a scriversi tutti i giorni
specialmente d’estate, quando le vacanze li separavano.
PASSIONI COMUNI
Se già a
partire dagli otto anni Dino è un piccolo genio, tenta il pianoforte e suona il
violino, è chiaro comunque ciò che prova nei confronti di certe imposizioni
dalle righe che scrive ad Arturo il 7 novembre del 1919: “Caro Brambillino, io sono dispiacentissimo di doverti dare un’orrenda
notizia. Oggi c’è un concerto di un celebre violinista e la mamma, perché
studio il violino vuole che ci vada”.
Per
questo motivo i due amici devono rimandare le loro corse in bicicletta, grande
passione di Buzzati adolescente. L’entusiasmo per Girardengo e quello per il
disegno, lo portano a imprimere sulla carta da lettere innumerevoli schizzi di
corse e classifiche di gare e campionati.
Spicca,
fra questi interessi, la scoperta della civiltà dell’antico Egitto. I due
ragazzi si sbizzarriscono fino ad alterarsi i nomi ‘all’egiziana’: Arturo
diventa Ar-Tueris e Dino si trasforma in Dinophis; non solo, ma comunicano con
un alfabeto di geroglifici di loro invenzione.
Inizia poi
fra i due una gara: scrivere un poema su una divinità egizia. Arturo sceglie
Horus, il dio solare dalla testa di falco, mentre Dino preferisce Anubis, il
dio-sciacallo che guida nell’oltretomba le anime dei morti. “Il fatto che
Buzzati, destinato a essere ossessionato, per tutta la vita, dall’idea della
morte, sia stato attratto, ad appena tredici anni, da una divinità funeraria”
scrive Simonelli, “ha per noi il valore di un presagio”.
“Andava
un giorno per le nebbie orrende/il divo Anubis tutto bene armato;/Mettea
ruggiti orrende dalle fauci/E cacciava i leoni via fuggenti./E come quando
nereggiante nube/Cupa s’avanza all’orizzonte, e tutto/copre il sole fulgente
nello spazio/caligin tetra via si spande attorno;/a questa guisa ad i leon
parea/il divo Anubis via guizzante e tetro...”.
Ma la
passione più grande è quella per la montagna. Durante l’estate del 1920,
infatti, Dino comincia le prime escursioni sulle Dolomiti e inizia a disegnare
soggetti montanari, affascinato dalle illustrazioni fantastiche di Arthur
Rackham (scoperto grazie al padre pittore di Arturo).
È nel
dicembre di quest’anno che scrive il suo primo testo letterario vero e proprio:
“La canzone delle montagne”.
CRESCERE
Sempre
nel 1920 muore Giulio Cesare Buzzati per un tumore al pancreas e Dino, a soli
quattordici anni, comincia a nutrire il timore di essere colpito dalla stessa
malattia del padre. Ecco che, a venti, scrive così ad Arturo: “Passo un periodo in cui non faccio nulla, in cui vedo passare
miseramente la vita, in cui mi accorgo del mio terribile egoismo, mi accorgo
che sono intelligente come tutti gli altri uomini, che davanti a me si apre l’aurea
porta della mediocrità, per sempre. Senza una briciola di volontà, con un
orgoglio infame, non riuscirò a nulla”.
Seguendo
poi la tradizione familiare, Dino si laurea in legge a Milano con una tesi
intitolata: “La natura giuridica del Concordato”.
Fra il ‘26
e il ‘27 assolve il servizio di leva. È sergente nella caserma di Teulié di
Milano e comincia ad amare ciò che gli altri giovani militari odiano: la
disciplina, l’uniforme, il dovere, gli orari e l’obbedienza.
AL “CORRIERE DELLA SERA”
Finita la
leva, Buzzati fa domanda di assunzione al “Corriere delle sera” e vi entra il
10 luglio del 1928, da praticante, senza voler raccomandazioni, anche se il
padre aveva collaborato al giornale negli anni passati.
Sarà uno
dei più imperterriti giornalisti d’Italia. Devozione e disponibilità caratterizzeranno
il suo lavoro, dall’iniziale mansione di cronista (che tenne per sette anni),
agli incarichi successivi di ‘vice’ del critico musicale, redattore per le
province, inviato speciale, corrispondente di guerra, elzevirista e redattore
capo. Nel periodo iniziale fu però guardato con poca benevolenza dai colleghi
e, frustrato, a pochi giorni dall’assunzione, scrive così a Brambilla: “Al giornale la mia vita non è brillante, mi pesa incredibilmente il
fatto che finora nessuno s’è accorto, modestia a parte, di quello che sono io.
Ho fatto la figura dell’idiota, e prevedo una fregatura (...). Procedo con
giorni di scoraggiamento e altri di stupido orgoglio”.
Buzzati
continua a sbagliarsi sulle proprie potenzialità, tende a scoraggiarsi, tanto
che il 15 febbraio del ‘30 scrive ancora ad Arturo: “Io nel Corriere sono un incapace; non so più come mi tengano. Sono
lento, terribilmente; per fare presto faccio, nella cronaca, dei pezzetti che
poi mi correggono, talora rifanno completamente. Scorgo sorrisi di compatimento
e silenzi imbarazzanti, mi chiudono fuori dalle confidenze (...). A poco a
poco, senza accorgermi, ingannato anche dal prossimo, mi sono ridotto allo
stato di un quidam qualsiasi, non fallito perché costretto a scegliere una
professione non adatta, ma bocciato alla prova da lui stesso desiderata. Questo
mi dà dolore, mi riempie di tristezza, mi fa rivolgere a te”.
In realtà,
Buzzati andava proprio in quel tempo maturando la sua arte attraverso il
contatto con il pubblico e non è un caso che nel 1931 inizi la collaborazione
al settimanale “Il Popolo di Lombardia” con note teatrali, racconti, e
soprattutto come illustratore.
Proprio
durante questi anni, cominciano a prendere vita, incorniciati dalle Dolomiti, anche
i suoi più noti personaggi, fra cui Barnabo, il protagonista del primo romanzo.
Ed è nel periodo in cui Dino è allievo ufficiale al campo di Spinga (20 luglio
1927) che scrive: “Poi questo bosco resterà
deserto e tacerà giorno e notte e tutti questi uomini scompariranno per il
mondo e io tornerò in un melanconico treno nell'ombra grigia. Fino a novant’anni,
nei tramonti verranno le speranze belle, ogni anno di meno, perché ogni anno ne
lascerò per la strada qualcheduna”.
Ma qui
parla già Giovanni Drogo, il protagonista de “Il deserto dei Tartari”. Dino e
Arturo non sono più ragazzi.
DUE STRADE DIVERSE
“Sensibili
entrambi fino al limite del morboso” prosegue Simonelli, “disarmati di fronte
alle cattiverie della vita, ansiosi in ogni rischio, assillati da dubbi, angosce
e inquietudini a non finire”. Secondo Buzzati è proprio per questi motivi che
fra lui e Arturo è nata un’amicizia così lunga e duratura. È altrettanto vero,
però, che i due amici sono molto diversi, soprattutto per quanto riguarda le
ambizioni. Dino aspira al successo e Arturo non ne è sfiorato neppure dal
pensiero; difatti assumono ruoli diversi nella storia della loro amicizia.
Buzzati scrive, si angoscia perché le sue prove non lo soddisfano: è alla
costante ricerca dell’idea per un racconto, un romanzo. Quando gliene viene una
che lì per lì gli sembra buona - racconta spesso all’amico - si affievolisce
subito appena tenta di metterla sulla carta. Ormai è finito il tempo delle gare
a chi scriveva il miglior racconto o faceva il miglior disegno. Quando era
soltanto un gioco, Arturo vi partecipava appassionatamente; quando per Dino si
trasforma in una scelta di vita, l’amico si mette da parte.
Buzzati
sostiene che anche Arturo avrebbe le qualità per fare qualcosa di buono nella
letteratura, ma gli manca l’ambizione, oppure glielo impediscono i casi della
vita. Brambilla infatti non vive in floride condizioni economiche e deve dare
una mano alla famiglia. È ancora studente liceale quando comincia ad
arrangiarsi facendo qualche lezione privata.
Le
diversità di ruoli nel romanzo della loro amicizia appaiono evidenti, appunto,
dopo la fine del liceo. Arturo e Dino prendono strade diverse: l’uno si iscrive
alla Facoltà di Lettere, l’altro a quella di Giurisprudenza. Arturo ha già
deciso che si dedicherà all’insegnamento nei licei, Dino vuole tentare la
carriera di giornalista e realizzare i suoi sogni letterari. È così che, mentre
Dino Buzzati prosegue lungo la strada della carriera di scrittore, Arturo
Brambilla diventa soltanto spettatore della sua maturazione, anche se
privilegiato e attivo. È un punto di riferimento sicuro, colui al quale Dino
sottopone ogni sua prova chiedendo consigli e giudizi.
LA NASCITA DEI ROMANZI
Nel ‘33 Buzzati
pubblica “Barnabo delle montagne” e nel ‘35 “Il segreto del bosco vecchio”. Il
momento della pubblicazione del secondo è difficile: l’Italia è in guerra con l’Etiopia,
Hitler inaugura le leggi razziste, la censura cresce. Il fascismo ha realizzato
il primato dell’azione sul pensiero. Buzzati è, in realtà, in un angolino del
panorama letterario del tempo. Non è certo nel novero degli intellettuali mal
sopportati dalla dittatura, ma nemmeno in quello che al duce dedica componimenti
o libri, né tantomeno fra coloro che coniano slogans per il regime.
Non molta
chiarezza quindi, ma è sbagliato tacciare Buzzati di collaborazionismo perché
non si mosse mai dal Corriere per tutto l’arco del fascismo. Non a caso fu lui
a redigere fra la notte del 25 e 26 aprile del ‘45 l’articolo che, dalla prima
pagina del Corriere, annunciava la Liberazione.
Nel ‘39
Buzzati inaugura la sua carriera di inviato speciale proprio in Eritrea; in
Africa ebbe modo di formare la sua idea di deserto e si guadagnò una medaglia
spronando i compagni.
Il 1940 è
l’anno dell’entrata dell’Italia in guerra. Buzzati, lasciata Addis Abeba in aprile,
stava per tornarvi dopo una breve licenza quando, sospese le navigazioni verso
l’Africa, venne imbarcato dall’incrociatore Fiume come corrispondente di
guerra; poi, dal Trieste, visse e descrisse le battaglie del Golfo della Sirte.
Dunque, “Il deserto dei Tartari” completò il suo iter editoriale senza le cure
dirette dell’autore. Nel gennaio del ‘39, infatti, Buzzati aveva affidato il
manoscritto ad Arturo Brambilla perché lo consegnasse a Leo Longanesi, che
stava preparando una nuova collezione per Rizzoli denominata “Il Sofà delle
Muse”. Su segnalazione di Indro Montanelli, questi aveva accettato la
pubblicazione; tuttavia, in una lettera, Longanesi aveva pregato l’autore di
cambiare il titolo originario “La Fortezza”, per evitare ogni allusione alla
guerra ormai imminente. Occorreva poi cambiare ogni ‘lei’ in ‘voi’, in base
alle disposizioni fasciste, e Dino invocò ancora l’aiuto di Arturo. L’amico di
sempre non si tirò indietro.
Un
esempio di consulto fra gli amici si ha nel luglio del ‘31 quando, dopo una
prima deludente stesura di “Barnabo delle montagne”, Dino scrive a Brambilla: “È stato per me un vero dolore che il primo pezzo, dove mi pare di aver
fatto dei pezzi bellissimi, ti sia parsa una cosa insignificante. Quello che è
difficilissimo è riuscire ad essere sincero o meglio conservare il mio vero
carattere e nello stesso tempo essere efficace (...). Tanta semplicità, secondo
me, deve essere l’abolizione assoluta di tutti i cretini pezzi descrittivi o
anche delle impotenti descrizioni psicologiche che impugnano miserabilmente
tutti, anche i belli romanzi moderni”.
Buzzati
ribadisce una critica provocatoria già riportata all’amico anni addietro, nel
novembre del ‘24: “Mi vado convincendo che
per fare le descrizioni di paesaggi, anche quelle famose, non ci vuole abilità,
ma occorre essere dei bei boia, perché tutte annoiano, nessuna riesce allo
scopo e sono tutte uguali. E “Quel ramo del lago di Como” mi fa pietà e tutti
quegli idioti che lo chiamano bello”.
A tal
punto è curioso notare cosa scrive nel ’35, riguardo la letteratura
contemporanea: “Ho la netta impressione
che tutta la letteratura veristica, quale oggi si va praticando, dal classico
romanzo d’amore ai racconti tipo Moravia, non abbia una vera ragione di
esistere (...). È un’obiezione cretina, se si vuole, ma fino a un certo punto.
Bisognerebbe scrivere qualcosa di cui il pubblico non possa non interessarsi,
anche se, come nel caso di Kafka, non la legge”.
IL SUCCESSO
All’altezza
del ‘45, anno che segna la fine della guerra, la biografia di Buzzati registra
un’esemplare quantità di racconti apparsi un po’ ovunque e che diventerà ancora
più consistente lungo il suo cammino creativo.
Negli
anni ‘50 e ’60, poi, Buzzati è un piccolo mito, sia in Italia che all’estero.
Da noi tiene mostre di pittura e vince numerosi premi letterari (fra cui lo Strega,
nel ’58, per “Sessanta racconti”) e in Francia un suo copione viene adattato da
Camus e rappresentato a Parigi. Le sue opere continuano a essere rappresentate
a teatro, alla radio e in seguito alla televisione.
LE DONNE
Nel ‘61,
la signora Alba Mantovani, novantenne, muore: un cordone psicologico teneva
Buzzati legato alla madre, con la quale aveva vissuto fino a due anni prima
della sua scomparsa, tanto che scriverà la cronaca interiore del funerale in un
elzeviro (“I due autisti”).
Non è un
caso che nei suoi primi racconti non appaia mai una donna, né che i fratelli
non si siano mai sposati ed egli stesso abbia deciso di farlo solo a sessant’anni.
Lo stesso Buzzati, nel corso di un’intervista, affermò: “Finché è stata viva,
io sono vissuto con lei e non ho desiderato farmi una famiglia”. “Una madre
tenera ma anche possessiva” infierisce Simonelli, “di qui un’educazione rigida,
inibizioni e la conseguente paura della donna e dell’amore”.
“L’assenza
della donna nella produzione maggiore di Buzzati è frutto di una censura
materna” aggiunge Attilio Cannella, “che ha legato l’amore a un senso di colpa”.
Del resto, Buzzati stesso dichiara di avere “una timidezza spaventosamente
ridicola”.
La prima
volta che, diciottenne, confida a Brambilla una delusione d’amore, si esprime
infatti così: “Non credere però che io
sia innamorato, nemmeno lontanamente. Ora mi persuado che non posso far niente
per la mia incapacità e mi rassegno a non pensarci nemmeno. Se ero a casa mi
sentivo pronto a fermarla, ma poi, quando le ero un po’ vicino, mi pareva di
essere interrogato da qualche Esaminatore Statale, e dovevo lasciarla andare
maledicendo me stesso”.
Spesso
sbotta con esclamazioni come: “Se potessero essere qui almeno delle pupe...”, e
in una lettera del luglio del ‘27 si legge: “E cresce l’amarezza e l’odio per il genere umano, un vero odio e guardo
le pupe altrui come si guardano i miliardi quando passano per la strada”.
A
trentasei anni, alla conclusione di una difficile storia d’amore, a Brambilla
scrive addirittura: “Mai avrei pensato che
nella vita si potesse provare una cosa simile. Sposarla? Ma è un’idea assurda.
Vivere con lei? Ma ne nascerebbero tali pasticci, dolori per mia Mamma,
sofferenze per me, che non posso neppure pensarci. E allora? Allora soffrire,
senza trovare nella vita alcuna attrattiva”.
Non
sorprende che l’autore, sessantenne, abbia vissuto in maniera patologica l’amore
per una giovane destinata a trasformarsi nella Laide di “Un amore”. È infatti
nel ‘63 che Buzzati stupisce il mondo letterario pubblicando questo romanzo
dalle situazioni spinte.
L’AFFIEVOLIRSI DELL’AMICIZIA
Gli anni
passano. Arturo si è sposato e ha messo al mondo due figli. I due amici si
vedono e si scrivono sempre più raramente (le ultime lettere corrispondono al
periodo in cui Buzzati trascorre la fine dell’estate in montagna); anche Dino
si è innamorato e si è staccato dagli amici. Non resta a entrambi che la
nostalgia per gli anni passati: “Ora un'ombra continua mi impedisce
ogni serenità e io penso che sia dovuta soprattutto agli anni: dopo essere
stato fino ai quarant’anni quanto mai tardivo, tantoché i coetanei mi
sembravano pressoché miei padri, di colpo forse sono sceso all’altro versante e
mi sento più anziano degli altri, e il mondo dei progetti, delle speranze,
delle nuove imprese mi pare per sempre vietato”.
L’AMORE E LA MORTE
Alle
14.30 del 16 maggio 1963, il fratello di Arturo, Alberto Brambilla, telefona a
Dino Buzzati: Arturo ha avuto un colpo mentre faceva lezione. Quando Dino
arriva è ormai troppo tardi: Hilla (come lo chiamava negli ultimi tempi) è
morto.
Nel ’66, Buzzati
si sposa con Almerina Antonazzi e continua a sperimentare nuove forme creative,
come la poesia e il fumetto. Ma all’inizio degli anni ‘70
la sua salute declina e nel ‘71 entra nella clinica “La Madonnina” di Milano.
Ora, la sua perenne ossessione, la morte, convive con lui più che mai.
Indro Montanelli,
che divise per trent’anni con lui e con Guido Piovene la stessa stanza al “Corriere
della sera”, ripensava a quel periodo “con un misto di commozione e di terrore”:
“Ho convissuto con due tipi, i quali, dalla mattina alla sera mi spiavano e si
spiavano fra loro per vedere che smorfia avrei fatto se fossi morto; vivevano
entrambi in compagnia della morte e la morte per loro ero io”.
Il
pomeriggio del ‘26 gennaio 1972, poco prima di morire, Buzzati chiese uno
specchio, dicendo: “Voglio sapere che colore ha la morte”. Osservò il suo volto
di sfuggita, concludendo: “Si, è il suo colore: color asfalto, grigiastro”.
BIBLIOGRAFIA:
Buzzati Dino, Lettere
a Brambilla (a cura di Luciano Simonelli), Mondadori, Milano, 1985
Utilizzare le lettere è un modo originale per ricostruire una biografia. Sicuramente il risultato non sarà un noioso elenco di fatti e cronologie, ma storia viva, affettiva, sentita.
RispondiEliminaGrazie mille per essere passata, Romina. E chissà che presto non ti capiti di leggere qualcosa di questo nostro 'piccolo' (si fa per dire) Kafka ;)
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